La spirale d'odio: dal commento choc contro la figlia della Meloni, al tentato suicidio, una riflessione amara sull'era social.
Schifo e più schifo.
La vicenda che ha coinvolto il professor Stefano Addeo e la figlia della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, è un amaro specchio della deriva che il dibattito pubblico, specialmente sui social media, ha ormai preso.
Un episodio che, dall'iniziale e deprecabile commento online, è degenerato in una gogna mediatica con conseguenze drammatiche, sollevando interrogativi profondi sui limiti dell'odio in rete e sulla responsabilità individuale e collettiva.
Tutto ha avuto inizio con un post di Addeo, professore napoletano, in cui augurava alla figlia di Giorgia Meloni "la stessa sorte della ragazza di Afragola", un riferimento agghiacciante e profondamente disumano che mirava a colpire la premier attraverso la sua bambina.
Un gesto vile, tanto più grave perché proveniente da una figura educativa che dovrebbe invece essere portatrice di valori come rispetto e dignità.
Il commento ha scatenato un'ondata di indignazione, comprensibile e doverosa, che ha portato alla luce la miseria di un attacco personale e gratuito.
Tuttavia, la reazione a questa "miseria" ha purtroppo alimentato un'altra forma di violenza, quella della gogna mediatica.
Se da un lato è innegabile la gravità della frase del professore, dall'altro la successiva esposizione mediatica e la veemenza degli attacchi subiti hanno avuto un impatto devastante sull'uomo che, stando alle ultime notizie, ha tentato il suicidio ingerendo un mix di farmaci, ed è attualmente ricoverato in condizioni gravi.
Un gesto estremo che ci costringe a riflettere sui meccanismi perversi del linciaggio social.
Ciò che emerge con forza da questa vicenda è l'ipocrisia di un certo sistema.
Chi oggi condanna con veemenza l'odio ricevuto, spesso non ha speso una parola per l'odio sistematico, il sessismo e la violenza verbale riversata quotidianamente su altre figure femminili della politica, da Elly Schlein a Ilaria Salis, solo per citarne alcune.
Un "vittimismo" selettivo che mina la credibilità di qualsiasi appello alla civiltà del linguaggio.
Se davvero si ha a cuore la pulizia del dibattito pubblico, l'indignazione non può e non deve essere a corrente alternata.
Ma cos'è, in fondo, un "hater"?
Spesso si tratta di un "poveraccio" che, protetto dallo schermo di uno smartphone o di un PC, si trasforma in un "leone da tastiera" credendo di agire senza conseguenze.
Un frustrato che, nella vita reale, non avrebbe il coraggio di proferire certe "zozzerie" in faccia al destinatario del suo odio.
L'era dei nickname e dei forum di nicchia è finita: oggi, sui social, si mette la faccia, il nome e il cognome, e si è pienamente perseguibili legalmente.
Eppure, la consapevolezza di questa realtà non sembra frenare la violenza verbale.
La storia di Addeo è un monito.
Quella che era iniziata come una condanna, giusta, per un commento abominevole, si è trasformata in una violenza di ritorno talmente schiacciante da spingere una persona a un gesto disperato.
L'odio va combattuto sempre, senza sconti e senza distinzioni di bandiera.
Ma trasformare un uomo in un mostro per una frase, al punto da portarlo sull'orlo della morte, è una forma di violenza ancora più grave e spaventosa.
Chi esulta o infierisce persino dopo un tentato suicidio, calpestando l'umanità e la fragilità di una persona, è molto peggio di qualsiasi commento odioso.
Questa vicenda ci impone una riflessione seria sulla necessità di "ripulire i social da questa miseria".
Non solo condannando chi la produce, ma anche imparando a gestire le conseguenze, a non alimentare la spirale di odio che rischia di travolgere tutti.
Se non si è preparati a gestire il "ritorno" dell'odio e la pressione del web, forse, è meglio "tacere due volte".
La vicenda del professor Addeo, nella sua tragicità, è un grido d'allarme che non possiamo ignorare.
Però la prossima volta tacesse veramente.
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