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Un passo avanti contro la violenza online: la chiusura di "Mia moglie" e la lotta che continua



​La rimozione di un gruppo Facebook infame dimostra che la denuncia collettiva può fare la differenza, ma il fenomeno è solo la punta di un iceberg di violenza e patriarcato.

​Negli ultimi giorni, una vicenda ha scosso il web e l'opinione pubblica, dimostrando che l'indignazione collettiva può ancora fare la differenza. 

Dopo un'ondata di proteste e oltre un migliaio di denunce in poche ore, Meta ha finalmente rimosso il gruppo pubblico "Mia moglie", una vera e propria fogna digitale dove venivano condivise foto e video intimi di donne senza il loro consenso.

​Questa rimozione, sebbene tardiva, rappresenta una vittoria importante e un segnale forte: alzare la voce, denunciare e non arrendersi di fronte all'ingiustizia serve a qualcosa. 

È la prova che la pressione popolare può spingere le grandi piattaforme a prendere provvedimenti, anche se, come dimostra la rapidità con cui il gruppo si è spostato altrove, la battaglia è tutt'altro che finita.

​Il contenuto di questi gruppi non può e non deve essere etichettato come perversione, goliardia o, peggio ancora, una forma di sessualità alternativa. 

Ha un nome preciso e inequivocabile: violenza. Esporre senza consenso l'intimità di mogli, fidanzate, amiche e persino figlie, o di donne sconosciute, per alimentare fantasie di atti sessuali e di sopraffazione, è a tutti gli effetti una forma di stupro virtuale. 

È un'occupazione abusiva e un saccheggio della dignità femminile, riducendo il corpo della donna a un mero oggetto per il piacere altrui.

​Questo fenomeno non riguarda un manipolo di "mostri" isolati. 
Le chat e i gruppi di questo tipo contano decine, se non centinaia di migliaia di membri, molti dei quali restano nell'anonimato. 
Dietro l'ipocrita facciata del "bravo padre di famiglia" o del "rispettabile cittadino" si nasconde spesso una mentalità che normalizza la violenza e la prevaricazione. 
Questi comportamenti sono la punta di un iceberg patriarcale che ha da tempo ridotto il corpo femminile a "demanio pubblico".

​La vicenda di "Mia moglie" non è un caso isolato, ma l'ennesima manifestazione di una società in cui il patriarcato continua a esercitare il suo regno denigratorio e distruttivo. 

I dibattiti, le notizie, i fallimenti delle istituzioni non sembrano scalfire una mentalità radicata che considera le donne come merce, abusabile e sfruttabile. 
L'indignazione, se non accompagnata da una riflessione profonda, rischia di essere un fuoco di paglia.

​Dobbiamo chiederci non solo "che mondo è questo?", ma anche "come siamo arrivati a questo punto?". 

La risposta risiede nel non aver affrontato alla radice il problema: un sistema culturale che da secoli deumanizza le donne e legittima la loro sottomissione.

​La chiusura di un singolo gruppo su Facebook è un piccolo passo, ma il vero lavoro da fare è cambiare la mentalità che lo ha reso possibile. Dobbiamo educare al rispetto, all'affettività sana e al consenso, e combattere attivamente ogni forma di violenza, sia essa virtuale o fisica. 

Il disgusto e l'indignazione provati di fronte a queste vicende sono comprensibili, ma devono trasformarsi in azione. 

Un'azione collettiva che, come in questo caso, ha dimostrato di poter ottenere risultati. Il messaggio è chiaro: la lotta continua.

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