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Il primo romanzo di Mancio M. Ruggiero

L'ultimo atto di Martina Oppelli che ha messo fine alla sua vita in Svizzera: dalla sofferenza alla denuncia contro lo Stato.



Un appello politico e un atto di coraggio contro l'inerzia della legge italiana sul fine vita.

È morta in Svizzera, con la dignità e la libertà di scegliere il proprio destino, Martina Oppelli, 50 anni, triestina, affetta da una grave forma di sclerosi multipla che l'aveva resa completamente immobilizzata. 

Un epilogo che Martina ha dovuto cercare lontano dal suo Paese, dopo che per ben tre volte le era stato negato l'accesso al suicidio assistito in Italia. 

La materia è molto particolare anche perché, sarà per la presenza della Chiesa sul territorio, sarà per come intere generazioni sono state indottrinate in un certo modo, sarà per una forma estrema di bigiotteria, ma riesce veramente difficile affrontare un simile argomento.

Oggi questo quasi ovunque è un diritto, a prescindere da come la si voglia pensare.
Che poi .... È così assurdo porsi in una posizione quando non si è coinvolti in prima persona o attraverso persone molto vicine.

Credo, però, che la sofferenza alla quale è sottoposto chi arriva a prendere una decisione simile non lasci tante "correnti di pensiero".

Ad ogni modo Martina Oppelli, prima di affrontare il suo ultimo viaggio, ha compiuto un gesto di straordinario coraggio e lucidità, denunciando l'Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (Asugi) per tortura e rifiuto di atti d'ufficio.

Questa denuncia, presentata attraverso l'Associazione Luca Coscioni che l'ha sostenuta nella sua battaglia, non è un atto di vendetta, ma un potente gesto politico e umano. 

Martina ha voluto denunciare non solo il calvario che ha subito personalmente, ma anche quello che potrebbero affrontare altre persone nella sua stessa condizione. 

La sua voce, registrata in un video prima di partire, è un accorato appello alla politica italiana, spesso distante e disinteressata di fronte a temi così delicati.

"Perché dobbiamo andare all’estero, perché dobbiamo pagare, anche affrontare dei viaggi assurdi?", si chiede Martina, costretta a sopportare un viaggio faticoso in condizioni di estrema sofferenza. 

Con una lucidità che non lascia spazio a interpretazioni, ha descritto la sua condizione di "disgregazione" fisica e la sensazione di non essere più un essere umano, ma una "macchina" a cui è stato negato il diritto di spegnersi con dignità.

La denuncia di Martina sottolinea un punto cruciale e doloroso del dibattito italiano sul fine vita: la discrezionalità con cui le aziende sanitarie locali interpretano i criteri stabiliti dalla Corte Costituzionale. 

Il caso di Martina evidenzia come, nonostante la sentenza Cappato, che ha aperto la strada al suicidio assistito in Italia, l'applicazione della legge resti incerta e lacunosa. 

Le condizioni di Martina, pur essendo gravissime, non sono state ritenute sufficienti dall'Asugi per ottenere il via libera, un diniego che l'associazione Coscioni ha definito una "forma di tortura" e un "trattamento disumano e degradante".

L'ultima battaglia di Martina Oppelli non è finita con la sua morte. 
La sua denuncia, il suo appello a una legge "sensata" e non discriminatoria, e il suo coraggio nel mettere al centro del dibattito politico la sofferenza di chi non ha voce, resteranno un monito per la classe dirigente. 

La sua storia ci ricorda che dietro ogni caso di fine vita c'è una persona, con i suoi diritti e la sua dignità, e che il silenzio, l'immobilismo e l'inerzia della politica possono diventare una forma di tortura.

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